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mercoledì 20 gennaio 2016

Anche le valutazioni sono determinanti nel falso in bilancio


Ancora una volta il blog Fraud Auditing & Forensic Accounting torna a parlare del falso in bilancio.

Lo ha fatto nei mesi scorsi con due interventi a firma del commercialista milanese Alberto Gabriele Piva (si vedano "Il bilancio e le riformate false comunicazioni sociali" e "False comunicazioni sociali: importante intervento della cassazione") e lo fa di nuovo oggi per aggiungere un nuovo tassello alla già ricca trattazione.

L'ultima rilevante interpretazione della Cassazione in tema di false comunicazioni sociali è contenuta nella sentenza n. 890 depositata lo scorso 12 gennaio 2016. Il cuore del pronunciamento recita testualmente: "Può allora affermarsi il principio secondo cui nell'articolo 2621 c.c., il riferimento ai "fatti materiali" oggetto di falsa rappresentazione non vale ad escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi che sono anche essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono quindi dirsi veri o falsi".

Una interpretazione, quindi, di segno opposto rispetto a quella più favorevole agli imputati, pronunciata dalla medesima Quinta Sez. Pen. della Corte (in composizione diversa) con sentenza n. 33774 depositata il 30 luglio 2015 (la c.d. "sentenza Crespi"), nella quale si legge: "Insomma, non si può ignorare, in una interpretazione che faccia buona applicazione dei criteri ermeneutici propri della materia penale, il non giustificato revirement nella formulazione della fattispecie, con ritorno alla locuzione "fatti materiali" (in luogo del riferimento al più ampio ed esaustivo concetto di "informazioni"), espressamente epurati di quell'aggancio alle "valutazioni", che invece aveva voluto la riforma del 2002, anche ricorrendo all'esplicita previsione di una soglia di punibilità calibrata proprio su di esse".

Pertanto, alla luce di questo nuovo pronunciamento della Corte, in linea con quanto auspicato e argomentato nei citati interventi pubblicati su questo blog, anche le valutazioni sono da annoverare tra gli elementi che possono originare un falso in bilancio.

Questa conclusione avrà certamente positive ripercussioni sul lavoro della magistratura inquirente e sul buon esito delle indagini in corso finalizzate a perseguire i responsabili di reati tanto gravi quali quelli legati alle false comunicazioni sociali e si affianca alle altre novità introdotte dalla Legge n. 69 del 2015.

In particolare, rispetto alle vecchie norme approvate tra il 2001 e il 2005 dai vari governi Berlusconi, la nuova normativa reintroduce elementi analoghi a quelli in vigore nei Paesi occidentali più avanzati quali:

  • non è più richiesta la querela del danneggiato;
  • si tratta di ipotesi delittuose tutte punibili con la reclusione;
  • si configurano come reati di pericolo e non di danno, per cui non assume alcun rilievo se c'è stato o meno un effettivo nocumento arrecato al socio o al creditore;
  • sono state eliminate le soglie di punibilità;
  • per le società quotate non ha rilevanza se il falso sia o meno rilevante (lo ha invece per le società non quotate);
  • i fatti materiali non corrispondenti al vero di "lieve entità" integrano comunque un delitto: a questi si applica una riduzione della pena (da sei mesi a tre anni in luogo alla maggiore rilevanza del falso punita da uno a cinque anni).
Pertanto, il pronunciamento della Corte potrebbe implicare, in accordo con la struttura della norma, che anche una valutazione consapevolmente non veritiera, ancorché di lieve entità, possa integrare comunque il reato di false comunicazioni sociali. 

Tale importante conclusione diviene dirompente se si considera, come già affermato in questo blog, che "le valutazioni sono il presupposto della redazione di qualsiasi bilancio e non una sua tecnica di redazione". 
In buona sostanza ciascuna voce di bilancio è soggetta ad un processo di valutazione più o meno complesso. Se non si effettuasse questo processo in ossequio ai criteri fondamentali di veridicità, completezza, accuratezza e correttezza, i documenti contabili si ridurrebbero a delle semplici liste di dati non comparabili fra loro con il rischio concreto, in ultima istanza, di non avere alcuna attendibilità e valenza informativa.


Stefano Martinazzo
Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti




martedì 12 gennaio 2016

La distrazione d’azienda ovverosia perché accontentarsi?

Questa particolare categoria di asset misappropriation riguarda una frode difficilmente collocabile nella tassonomia corrente ma estremamente dannosa per l’impresa che ne è vittima.


Secondo la classificazione più utilizzata nella pratica (cfr. il concetto di Fraud Tree in J.T. Wells, “Corporate Fraud Handbook, Prevention and Detection”, John Wiley & Sons, Inc.) le frodi occupazionali si dividono in 3 grandi “famiglie”:
  • Corraption (corruzione e concussione);
  • Asset Misappropriation (appropriazione indebita di beni);
  • Fraudulent Statements (false dichiarazioni). 
Gli schemi di frode inclusi nella categoria “asset misappropriation” hanno come proprio oggetto materiale i singoli beni che compongono il patrimonio dell’impresa (es. disponibilità liquide, magazzino, impianti e macchinari, brevetti….etc).

Nell’esperienza professionale quotidiana si assiste però al compimento di una misappropriation che ha per oggetto una particolare categoria di asset: l’intera azienda (ovverosia il complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa).

Capita molto spesso che, soprattutto se un’impresa è in crisi o è addirittura decotta, i soci e/o gli amministratori vogliano proseguire l’attività liberandosi del peso dei debiti e mettendo allo stesso tempo al riparo dall’aggressione degli altri stakeholders gli asset più importanti dell’impresa.

A differenza di altri schemi di frode, è quasi impossibile codificare condotte “standard” poiché la casistica è ampia e variegata almeno quanto la creatività di coloro che perpetrano queste frodi (e dei consulenti che li assistono), tuttavia, in base alla giurisprudenza ed all’esperienza si possono individuare dei tratti comuni a questo insieme di condotte nonché alcuni schemi utilizzati con maggior frequenza.

Con riguardo ai tratti comuni, molti schemi per appropriarsi fraudolentemente dei mezzi di produzione di un’impresa condividono le seguenti caratteristiche:
  • sono complessi;
  • sono quasi esclusivamente compiuti dai vertici dell’impresa (soci ed amministratori);
  • sono perpetrati nel rispetto formale delle norme e delle comuni prassi giuridico-economiche;
  • richiedono abitualmente un certo tempo di preparazione ed implementazione;
  • richiedono di solito conoscenze giuridiche, economiche e contabili approfondite.
Con riferimento invece alle modalità operative più utilizzate, sono riportati di seguito in ordine, approssimativo e non esaustivo, di crescente complessità alcuni esempi scelti fra gli schemi operativi di frode più utilizzati:

1. Sviamento o storno della clientela: i soci e/o gli amministratori dell’impresa danno indicazioni alla clientela di rivolgersi ad un’entità a loro correlata diversa dall’impresa vittima di frode per le richieste di merce e servizi.

2. Cessione dell’azienda ad un’entità correlata agli amministratori e/o ai soci dell’impresa vittima: i soci e/o gli amministratori dell’impresa vittima di frode cedono l’azienda di produzione dell’impresa vittima di frode a un’entità a loro correlata. Di norma questo è accompagnato da pratiche volte alla simulazione del pagamento del corrispettivo oppure a forme di pagamento che non comportano da parte dell’entità cessionaria alcun esborso di denaro (i cosiddetti pagamenti “carta contro carta”).

3. Conferimento da parte dei soci e/o degli amministratori dell’intera azienda o della parte più redditizia in un’entità correlata: i soci e gli amministratori dell’impresa vittima conferiscono ad un’entità ad loro correlata l’azienda o la sua parte più redditizia. In seguito al conferimento, l’impresa vittima pertanto si trova, da un lato, priva dei flussi di cassa operativi per fare fronte ai propri debiti e, dall’altro, proprietaria di una partecipazione nell’entità conferitaria (elemento patrimoniale illiquido e soggetto a valutazione in base a criteri non univoci).

4. Frammentazione dell’azienda: soci e/o gli amministratori “fanno a fette” l’azienda attraverso la cessione ad entità a loro correlate di funzioni o elementi dell’attivo strategici per l’impresa vittima. Successivamente tra l’impresa vittima e l’entità cessionaria sono sottoscritti accordi di utilizzo a condizioni svantaggiose per l’impresa vittima (es. conferimento ad un’entità correlata ai soci o agli amministratori dell’immobile dove l’impresa vittima esercita la propria attività e successiva sottoscrizione di un contratto di locazione ad un canone elevato).

5. Affitto dell’azienda “blindato” a condizioni non di mercato: l’impresa vittima dà in affitto la propria azienda (quest’ultima di norma libera da debiti) ad un’entità correlata ai suoi soci e/o ai suoi amministratori a condizioni svantaggiose. Solitamente questi contratti prevedono canoni di affitto molto bassi e opzioni di acquisto dell’azienda a condizioni particolarmente vantaggiose per l’affittuaria ed estremamente vincolanti ed onerose per l’affittante. Come nel caso della cessione di azienda, anche queste operazioni molto spesso sono accompagnate da pratiche volte alla simulazione del pagamento del corrispettivo dovuto all’impresa vittima oppure prevedono forme di pagamento “carta contro carta” (es. pagamento dei canoni di affitto tramite la cessione di crediti inesigibili, compensazione con controcrediti di incerta origine vantati dall’affittuaria,…etc).

6. Suddivisione e successiva scissione dell’impresa fra una good company ed una bad company: i soci e/o gli amministratori effettuano nel rispetto formale delle norme un’operazione di scissione dell’impresa vittima di frode suddividendola in due entità distinte: la parte più redditizia (“good company”) e la parte meno appetibile (“bad company”). La good company prosegue l’attività dell’impresa scissa mentre la bad company nel breve/medio periodo va in fallimento o vi è condotta. Negli schemi più elaborati alla bad company è lasciata un po’ di liquidità che le permette di “stare in piedi” per qualche esercizio successivo alla scissione.

Data la complessità di questi schemi di frode, le consuete procedure di revisione non possono trovare un’applicazione pedissequa poiché la distrazione dell’azienda ricade in quella categoria di frodi compiuta da chi sovraintende alle tre tipologie fondamentali di attività di un’impresa (i.e. gestione dei beni, autorizzazione e registrazione delle operazioni) ovverosia chi è in grado di poter occultare con maggiore facilità le tracce della propria condotta.

Come si vedrà in un prossimo articolo, per individuare queste frodi si possono comunque applicare i principi e le metodologie generali di fraud examination.

Alberto Gabriele Piva
Dottore Commercialista Revisore - Legale dei Conti - Certified Fraud Examiner



lunedì 4 gennaio 2016

Rating di legalità, decollano le richieste e le assegnazioni

L’art. 5-ter del Decreto Legge n. 1/12, poi modificato dal Decreto Legge n. 29/12, convertito con modificazioni dalla Legge 62/12, prevede che: “Al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato è attribuito il compito (…) di procedere (...) alla elaborazione ed all’attribuzione, su istanza di parte, di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale che raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro, riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza (...). Del rating attribuito si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario (...). Gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”.


Si tratta quindi di un giudizio che l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) attribuisce, in presenza di particolari requisiti, alle aziende italiane virtuose nei comportamenti etici volti alla legalità nella gestione del proprio business.
Ma è anche uno strumento di promozione e sensibilizzazione all'onestà, alla rettitudine e alla trasparenza nel fare affari in un contesto sempre più spregiudicato e corrotto, con ripercussioni molto importanti per le aziende che lo ottengono al fine dell'accesso al credito bancario e al finanziamento pubblico.

Pertanto, secondo quanto previsto da AGCM, potranno richiedere l'attribuzione del rating le imprese:
  • italiane
  • che abbiano raggiunto un fatturato di € 2 milioni (singolarmente o di gruppo)
  • che tale fatturato risulti dall'ultimo bilancio regolarmente approvato
  • che siano iscritte al registro delle imprese da almeno 2 anni
L'istanza deve essere inoltrata all'AGCM direttamente dall'azienda che ne ha interesse, in via telematica, utilizzando gli appositi formulari e seguendo le istruzioni indicate sul sito.

Il rating è attribuito dall'Authority secondo un giudizio a "stellette" in base alle dichiarazioni delle aziende verificate attraverso controlli incrociati con i dati in possesso delle Pubbliche Amministrazioni.

Per ottenere il punteggio minimo (una stelletta) l’azienda dovrà dichiarare, ad esempio, che l’imprenditore e gli altri soggetti rilevanti ai fini del rating (direttore generale, amministratori, soci eccetera) non siano destinatari di misure di prevenzione e/o cautelari, sentenze penali di condanna o di patteggiamento per alcune tipologie di reato (reati tributari, d.lgs. 231/01 eccetera) ovvero che l'azienda non sia stata condannata nei due anni precedenti per illeciti antitrust o per violazioni del codice del consumo o ancora per il mancato rispetto delle norme a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro o degli obblighi retributivi, contributivi, assicurativi e fiscali nei confronti dei propri dipendenti e collaboratori. 

Il punteggio massimo si ottiene in presenza di altri requisiti oltre a quelli minimi richiesti, quali, ad esempio:
  • rispettare il Protocollo di legalità sottoscritto dal Ministero dell’Interno e da Confindustria;
  • utilizzare sistemi di tracciabilità dei pagamenti;
  • adottare un modello organizzativo ai sensi del d.lgs. 231/2001;
  • essere iscritte in uno degli elenchi di fornitori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa;
  • avere aderito a codici etici di autoregolamentazione adottati dalle associazioni di categoria.
Il rating di legalità ha durata di due anni dal rilascio ed è rinnovabile su richiesta. In caso di perdita di uno dei requisiti base, necessari per ottenere una "stelletta", l’Autorità dispone la revoca del rating. 
AGCM mantiene aggiornato sul proprio sito l’elenco delle imprese cui il rating di legalità è stato attribuito, sospeso, revocato, con la relativa decorrenza (cliccare QUI per visionare l'elenco).

Nel 2015 sono state 1.514 le aziende che hanno inoltrato la domanda ad AGCM per l'ottenimento del rating di legalità, con un incremento di quasi il 250% rispetto al 2014. 
Al 31 dicembre 2015 l'Authority ha attribuito 1.083 rating di legalità e ne ha negati 66 (QUI tutte le statistiche).