Pensavamo che la Corte di Cassazione avesse esaurito il proprio esercizio interpretativo in tema di false comunicazioni sociali (ex art. 2621 e 2622 cod. civ.) con la Sentenza n. 890 del 12 gennaio 2016 (la c.d. "sentenza Nappi").
Ci sbagliavamo.
Ci sbagliavamo.
Il cuore del pronunciamento della Corte dello scorso gennaio, infatti, andava a riscrivere una precedente decisione, di segno opposto, presa dalla Quinta Sezione Penale con Sentenza n. 33774 del 30 luglio 2015 (la c.d. "sentenza Crespi"), con cui si affermava l'irrilevanza penale della falsificazione delle poste valutative di bilancio.
Come addetti ai lavori ci pareva, infatti, del tutto logico ed evidente considerare gli enunciati valutativi di un bilancio come passibili di essere intaccati da falsità quando violino predeterminati criteri di valutazione, siano questi ultimi definiti da una buona dottrina o siano indicati normativamente o, ancora, siano frutto di un corretto e condivisibile metodo di ragionamento.
I giuristi della Corte, con la sentenza del gennaio 2016, avevano enunciato un principio del tutto evidente: che "anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono quindi dirsi veri o falsi".
Tutto sembrava essere stato chiarito e ricollocato in un contesto di ragionevolezza.
A tutti i forensic accountant di esperienza, infatti, è noto come siano proprio le poste valutative ad essere "utilizzate" dai falsificatori di bilancio per i propri intenti fraudolenti.
A tutti i forensic accountant di esperienza, infatti, è noto come siano proprio le poste valutative ad essere "utilizzate" dai falsificatori di bilancio per i propri intenti fraudolenti.
Sorprendentemente però il Supremo Collegio è riuscito a stupire con una nuova Sentenza presa lo scorso 22 febbraio 2016, la n. 6916.
Con quest'ultimo pronunciamento si è tornati alla casella di partenza, statuendo che il falso nelle poste valutative non è previsto dalle norme sul reato di false comunicazioni sociali in quanto la norma fa riferimento ai soli "fatti materiali" e non alle più generiche informazioni o alle poste valutative.
I Giudici di Legittimità hanno dunque negato un orientamento a nostro avviso assolutamente coerente con la cultura contabile, depotenziando quasi del tutto la norma sulle false comunicazioni sociali, soprattutto se si considera che ormai sono sempre meno e poco significative le voci di bilancio non soggette a qualche forma di valutazione e stima.
Preferiamo non entrare nel merito delle assunzioni con cui la Corte, giustificando il proprio pronunciamento, arriva a considerare addirittura intrinsecamente opposte le nozioni di "fatto materiale" e di "valutazione", come se queste ultime fossero il frutto di mero e immateriale arbitrio e non di scrupolosi quanto di oggettivi e concreti processi di ragionamento logico-matematico. Arrivando al paradosso che se il falso riguarda esclusivamente una posta valutativa, la fattispecie non costituisce reato.
E il paradosso diviene amaramente evidente se si pensa che la quasi totalità delle poste dei bilanci delle società quotate sui mercati regolamentati accessibili a tutti i risparmiatori, sono determinate grazie a metodi di valutazione basati sul "valore equo" o "valore
corrente" o "valore di mercato", in altre parole sul concetto di fair value.
Alla luce di quanto affermato, auspichiamo un quarto - e questa volta definitivo - intervento della Suprema Corte, magari a Sezioni Unite, che sappia nuovamente sorprenderci favorevolmente.