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domenica 20 marzo 2016

Ostacolo alle attività dei revisori pubblici

Il 22 febbraio scorso la 5^ Sez. Penale della Suprema Corte di Cassazione ha pronunciato la sentenza n. 6884 in tema di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ex art. 2638 cod. civ..
Un articolo piuttosto conosciuto dai CT di difesa e accusa, in quanto molto "utilizzato" dagli organi inquirenti.

La Sentenza, in particolare, ha confermato la condanna a carico del Presidente del Consiglio di amministrazione e del Direttore generale di una società cooperativa trentina per non aver indicato nei bilanci d'esercizio una fideiussione e, soprattutto, per aver omesso la comunicazione ai revisori.

Ma i revisori dei conti sono da considerarsi "autorità pubblica di vigilanza"?
In questo caso sì.


La vigilanza sui conti delle cooperative trentine è disciplinata dalla Legge Regionale 9 luglio 2008, n. 5 e dal relativo Regolamento di attuazione, che attribuisce le funzioni di controllo ad un’autorità di revisione costituita dall'associazione di rappresentanza delle cooperative, la Federazione Trentina della Cooperazione.

La revisione, pertanto, è effettuata in base ai criteri fissati dalla Legge Regionale grazie ad una "Divisione Vigilanza" costituita ad hoc della Federazione Trentina della Cooperazione, in ossequio ai requisiti di autonoma e indipendenza dettati dalla legge regionale.

Alla luce dei sistemi di controllo e vigilanza sulle società cooperative previsti in Trentino, è stato violato l'art. 2638 Cod. Civ. per la mancata indicazione tra i conti d'ordine dei bilanci societari di una fidejussione di € 12,2 milioni rilasciata a favore di una controllata e per l'omessa informazione all'organo di revisione, ostacolando, di fatto, l'esercizio delle funzioni pubbliche di verifica e di controllo degli organi istituzionalmente preposti alla vigilanza sulla gestione economica delle cooperative trentine.


domenica 6 marzo 2016

Internal audit e obblighi antiriciclaggio

Una domanda che si sente porre assai frequentemente ai vari convegni sull'applicazione della normativa antiriciclaggio, riguarda il ruolo dell'Internal audit nella segnalazione di operazioni sospette.

In buona sostanza, l'Internal audit è tenuto a segnalare le operazioni sospette ex d.lgs 231/07?



Il 1° comma dell'art. 52 del decreto legislativo richiede che a vigilare sull'osservanza delle norme antiriciclaggio siano:
  • il collegio sindacale;
  • il consiglio di sorveglianza;
  • il comitato di controllo di gestione;
  • l'organismo di vigilanza ex d.lgs 231/01;
  • "tutti i soggetti incaricati del controllo di gestione comunque denominati".
Pertanto la norma  pone a carico delle funzioni organizzative aziendali istituzionalmente preposte alle attività di controllo e vigilanza, il compito di rispettare le disposizioni di cui al d.lgs 231/07.

Ma la funzione di Internal audit è assimilabile agli organi di controllo e vigilanza menzionati dalla norma?
Ovvero, l'Internal audit gode di quell'autonomia, di quell'indipendenza, di quella autosufficienza economica dagli organi amministrativi, necessaria a garantirgli la massima libertà d'azione?

La risposta è piuttosto ovvia, ed è no!

Infatti l'Internal audit, dipendendo funzionalmente dall'organismo amministrativo, non può essere assimilato ad un organo di vigilanza, proprio per la mancanza di quegli elementi distintivi,  tipici e caratteristici che invece dovrebbero qualificare una struttura di controllo.

Ma vi è un'altra motivazione meno empirica e più concettuale che porta ad escludere l'Internal audit dal novero dei soggetti obbligati alla segnalazione di operazioni sospette ai fini antiriciclaggio.

La ragione è da ricercarsi nello stesso compito attribuito dall'organo amministrativo alla funzione Internal audit: l'essere responsabile dell'aggiornamento e del corretto funzionamento dei sistemi di controllo interno.

Se si considerassero, come devono essere considerate, le procedure antiriciclaggio come una delle più importanti componenti di un efficiente ed efficacie sistema di controllo interno, allora non apparirebbe tanto strano escludere dagli organi utilizzatori dello stesso sistema di vigilanza, la struttura che ne tiene la manutenzione.

L'Internal audit è chiamato a garantire che il sistema antiriciclaggio funzioni correttamente e sia aggiornato ed adeguato ad intercettare le operazioni sospette da segnalare all'Unità di Informazione Finanziaria, mentre altre strutture saranno preposte ad utilizzare tali sistemi e procedure per effettuare materialmente le comunicazioni.

Se così non fosse ci troveremmo a negare un principio fondamentale nell'ambito delle attività di controllo e vigilanza: il concetto di "segregation of duties", di cui il blog si è già occupato nel dicembre scorso (link), ovvero il principio di segregazione o separazione dei compiti tra la funzione d'Internal audit e la funzione Antiriciclaggio.


domenica 28 febbraio 2016

False valutazioni di bilancio, sono reato. Anzi, no!

Avevamo cantato vittoria con troppo entusiasmo (link).

Pensavamo che la Corte di Cassazione avesse esaurito il proprio esercizio interpretativo in tema di false comunicazioni sociali (ex art. 2621 e 2622 cod. civ.) con la Sentenza n. 890 del 12 gennaio 2016 (la c.d. "sentenza Nappi").
Ci sbagliavamo.

Il cuore del pronunciamento della Corte dello scorso gennaio, infatti, andava a riscrivere una precedente decisione, di segno opposto, presa dalla Quinta Sezione Penale con Sentenza n. 33774 del 30 luglio 2015 (la c.d. "sentenza Crespi"), con cui si affermava l'irrilevanza penale della falsificazione delle poste valutative di bilancio.




Come addetti ai lavori ci pareva, infatti, del tutto logico ed evidente considerare gli enunciati valutativi di un bilancio come passibili di essere intaccati da falsità quando violino predeterminati criteri di valutazione, siano questi ultimi definiti da una buona dottrina o siano indicati normativamente o, ancora, siano frutto di un corretto e condivisibile metodo di ragionamento. 

I giuristi della Corte, con la sentenza del gennaio 2016, avevano enunciato un principio del tutto evidente: che "anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono quindi dirsi veri o falsi".

Tutto sembrava essere stato chiarito e ricollocato in un contesto di ragionevolezza.
A tutti i forensic accountant di esperienza, infatti, è noto come siano proprio le poste valutative ad essere "utilizzate" dai falsificatori di bilancio per i propri intenti fraudolenti.  

Sorprendentemente però il Supremo Collegio è riuscito a stupire con una nuova Sentenza presa lo scorso 22 febbraio 2016, la n. 6916.

Con  quest'ultimo pronunciamento si è tornati alla casella di partenza, statuendo che il falso nelle poste valutative non è previsto dalle norme sul reato di false comunicazioni sociali in quanto la norma fa riferimento ai soli "fatti materiali" e non alle più generiche informazioni o alle poste valutative.

I Giudici di Legittimità hanno dunque negato un orientamento a nostro avviso assolutamente coerente con la cultura contabile, depotenziando quasi del tutto la norma sulle false comunicazioni sociali, soprattutto se si considera che ormai sono sempre meno e poco significative le voci di bilancio non soggette a qualche forma di valutazione e stima.

Preferiamo non entrare nel merito delle assunzioni con cui la Corte, giustificando il proprio pronunciamento, arriva a considerare addirittura intrinsecamente opposte le nozioni di "fatto materiale" e di "valutazione", come se queste ultime fossero il frutto di mero e immateriale arbitrio e non di scrupolosi quanto di oggettivi e concreti processi di ragionamento logico-matematico. Arrivando al paradosso che se il falso riguarda esclusivamente una posta valutativa, la fattispecie non costituisce reato.

E il paradosso diviene amaramente evidente se si pensa che la quasi totalità delle poste dei bilanci delle società quotate sui mercati regolamentati accessibili a tutti i risparmiatori, sono determinate grazie a metodi di valutazione basati sul "valore equo" o "valore corrente" o "valore di mercato", in altre parole sul concetto di fair value. 

Alla luce di quanto affermato, auspichiamo un quarto - e questa volta definitivo - intervento della Suprema Corte, magari a Sezioni Unite, che sappia nuovamente sorprenderci favorevolmente.


giovedì 18 febbraio 2016

Sottrazioni di cassa? La Cassazione propone una soluzione

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, nel dicembre 2014, ha emesso una sentenza di fondamentale importanza nella lotta agli illeciti commessi dal lavoratore che non riguardino il mero inadempimento della prestazione, bensì quando incidano sul patrimonio aziendale.

Si tratta della Sentenza n. 25674 emessa il 4 dicembre 2014, che, confermando un orientamento ormai consolidato, ritiene legittimi ed esenti da violazioni dello Statuto dei lavoratori, i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa se diretti non a verificare il mero eventuale inadempimento contrattuale del lavoratore, ma illeciti riguardanti il patrimonio aziendale.


Il casus decisus riguardava una cassiera di un supermercato che aveva omesso di registrare la vendita di alcuni prodotti non facendoli passare sullo scanner per la lettura del codice a barre e si era intascata le relative somme.

Il datore di lavoro aveva verificato alcune differenze di magazzino confrontando i codici che si dovevano trovare in giacenza rispetto alle quantità vendute, grazie ad inventari fisici mirati. Si era avvalso pertanto di un'agenzia investigativa specializzata nell'ambito corporate, con lo scopo di documentare gli illeciti del lavoratore. Peraltro l'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro, aveva accertato che tale comportamento era reiterato anche a distanza di alcuni giorni.

La Cassazione ha dato ragione al datore di lavoro, ritenendo legittimo il licenziamento intimato per giusta causa alla dipendente in seguito alle evidenze raccolte dagli investigatori,  che dimostravano con evidente chiarezza ciò che il datore di lavoro aveva solo sospettato. Un furto di cassa.

Nel caso di specie è stata ritenua non sproporzionata la sanzione del licenziamento per giusta causa, giustificata nella sua gravità dall'accertata reiterazione del fatto e delle funzioni particolarmente delicate e di responsabilità attribuite all'addetta alla cassa: elementi che fanno venir meno il legame fiduciario alla base del rapporto di lavoro subordinato.

Conseguentemente, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento sul presupposto che, nel caso in esame, si era "trattato di controlli diretti a verificare eventuali sottrazioni di cassa" e quindi con scopo di salvaguardia del patrimonio aziendale.

Per un approfondimento si veda quanto già pubblicato sul blog con riferimento alla "conta di cassa a rischio di frode".



domenica 7 febbraio 2016

Professionisti e attività antiriciclaggio: gli indicatori di anomalia

Dottori commercialisti, revisori dei conti, consulenti del lavoro, notai, avvocati, periti nelle materie contabili e tributarie ed altre categorie professionali sono chiamati quasi quotidianamente a valutare se una determinata operazione avente natura finanziaria o patrimoniale sia "sospetta" ai fini antiriciclaggio e/o finanziamento al terrorismo.




Il professionista deve cimentarsi pertanto, in una valutazione finalizzata a declinare come sospetta o non sospetta una determinata operazione o attività, in ragione della quale il proprio cliente gli richiede assistenza.

Con l'obiettivo di agevolare il professionista nelle procedure di valutazione del rischio di riciclaggio, il legislatore è intervenuto con il Decreto del Ministero della Giustizia del 16 aprile 2010 (pdf), fornendo una sorta di vademecum basato sugli "indicatori di anomalia", in presenza dei quali segnalare all'autorità preposta (l’Unità di Informazione Finanziaria, "UIF") l'operazione intaccata da profili di sospetto.

Si tratta di uno strumento operativo molto utile, dettagliato per categorie e fattispecie nell'Allegato 1 al Decreto, finalizzato a "ridurre i margini di incertezza connessi con valutazioni soggettive o con comportamenti discrezionali", in modo da rendere corretti e omogenei gli adempimenti antiriciclaggio o di contrasto al finanziamento al terrorismo.

Il legislatore, naturalmente, tiene a precisare nel testo del Decreto, che l'elencazione degli indicatori non è esaustiva in considerazione della continua evoluzione delle modalità di svolgimento di tali operazioni illegali, lasciando al professionista l'autonomia di identificare altri criteri più determinanti allo scopo.

Non è nemmeno corretto, tuttavia, segnalare l'operazione come sospetta solo se questa ricade in uno o più indicatori di anomalia. Infatti, la medesima operazione può essere giudicata come "non sospetta" dal professionista in presenza di ulteriori caratteristiche, comportamenti della clientela o elementi persuasivi in tal senso.

Corrono in aiuto del professionista anche gli Ordini di appartenenza con l'emissione periodica di linee guida aggiornate. Ad esempio, in data 28 luglio 2011 il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili ha emanato le proprie linee guida per l'adeguata verifica della clientela (pdf).

Torneremo a parlare su questo blog degli indicatori di anomalia entrando nel merito dei modelli e degli schemi di comportamento anomali e/o irregolari ai fini della segnalazione di operazioni sospette; per il momento si riportano nel seguito i principali riferimenti normativi con riferimento ad altri operatori economici non professionisti.
  • Decreto del Ministero dell'Interno del 25 settembre 2015 - Determinazione degli indicatori di anomalia al fine di agevolare l'individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo da parte degli uffici della pubblica amministrazione (GU Serie Generale n.233 del 7-10-2015) (pdf);
  • Banca d'Italia, Delibera n. 61 del 30 gennaio 2013 - Provvedimento recante gli indicatori di anomalia per le società di revisione e revisori legali con incarichi di revisione su enti di interesse pubblico (pdf);
  • Decreto del Ministero dell'Interno del 17 febbraio 2011 - Determinazione degli indicatori di anomalia al fine di agevolare l’individuazione di operazioni sospette di riciclaggio da parte di talune categorie di operatori non finanziari (pdf) e successiva modificazione del 27 aprile 2012 (pdf);
  • Banca d'Italia, Delibera n. 616 del 24 agosto 2010 - Provvedimento recante gli indicatori di anomalia per gli intermediari (pdf).




mercoledì 20 gennaio 2016

Anche le valutazioni sono determinanti nel falso in bilancio


Ancora una volta il blog Fraud Auditing & Forensic Accounting torna a parlare del falso in bilancio.

Lo ha fatto nei mesi scorsi con due interventi a firma del commercialista milanese Alberto Gabriele Piva (si vedano "Il bilancio e le riformate false comunicazioni sociali" e "False comunicazioni sociali: importante intervento della cassazione") e lo fa di nuovo oggi per aggiungere un nuovo tassello alla già ricca trattazione.

L'ultima rilevante interpretazione della Cassazione in tema di false comunicazioni sociali è contenuta nella sentenza n. 890 depositata lo scorso 12 gennaio 2016. Il cuore del pronunciamento recita testualmente: "Può allora affermarsi il principio secondo cui nell'articolo 2621 c.c., il riferimento ai "fatti materiali" oggetto di falsa rappresentazione non vale ad escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi che sono anche essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono quindi dirsi veri o falsi".

Una interpretazione, quindi, di segno opposto rispetto a quella più favorevole agli imputati, pronunciata dalla medesima Quinta Sez. Pen. della Corte (in composizione diversa) con sentenza n. 33774 depositata il 30 luglio 2015 (la c.d. "sentenza Crespi"), nella quale si legge: "Insomma, non si può ignorare, in una interpretazione che faccia buona applicazione dei criteri ermeneutici propri della materia penale, il non giustificato revirement nella formulazione della fattispecie, con ritorno alla locuzione "fatti materiali" (in luogo del riferimento al più ampio ed esaustivo concetto di "informazioni"), espressamente epurati di quell'aggancio alle "valutazioni", che invece aveva voluto la riforma del 2002, anche ricorrendo all'esplicita previsione di una soglia di punibilità calibrata proprio su di esse".

Pertanto, alla luce di questo nuovo pronunciamento della Corte, in linea con quanto auspicato e argomentato nei citati interventi pubblicati su questo blog, anche le valutazioni sono da annoverare tra gli elementi che possono originare un falso in bilancio.

Questa conclusione avrà certamente positive ripercussioni sul lavoro della magistratura inquirente e sul buon esito delle indagini in corso finalizzate a perseguire i responsabili di reati tanto gravi quali quelli legati alle false comunicazioni sociali e si affianca alle altre novità introdotte dalla Legge n. 69 del 2015.

In particolare, rispetto alle vecchie norme approvate tra il 2001 e il 2005 dai vari governi Berlusconi, la nuova normativa reintroduce elementi analoghi a quelli in vigore nei Paesi occidentali più avanzati quali:

  • non è più richiesta la querela del danneggiato;
  • si tratta di ipotesi delittuose tutte punibili con la reclusione;
  • si configurano come reati di pericolo e non di danno, per cui non assume alcun rilievo se c'è stato o meno un effettivo nocumento arrecato al socio o al creditore;
  • sono state eliminate le soglie di punibilità;
  • per le società quotate non ha rilevanza se il falso sia o meno rilevante (lo ha invece per le società non quotate);
  • i fatti materiali non corrispondenti al vero di "lieve entità" integrano comunque un delitto: a questi si applica una riduzione della pena (da sei mesi a tre anni in luogo alla maggiore rilevanza del falso punita da uno a cinque anni).
Pertanto, il pronunciamento della Corte potrebbe implicare, in accordo con la struttura della norma, che anche una valutazione consapevolmente non veritiera, ancorché di lieve entità, possa integrare comunque il reato di false comunicazioni sociali. 

Tale importante conclusione diviene dirompente se si considera, come già affermato in questo blog, che "le valutazioni sono il presupposto della redazione di qualsiasi bilancio e non una sua tecnica di redazione". 
In buona sostanza ciascuna voce di bilancio è soggetta ad un processo di valutazione più o meno complesso. Se non si effettuasse questo processo in ossequio ai criteri fondamentali di veridicità, completezza, accuratezza e correttezza, i documenti contabili si ridurrebbero a delle semplici liste di dati non comparabili fra loro con il rischio concreto, in ultima istanza, di non avere alcuna attendibilità e valenza informativa.


Stefano Martinazzo
Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti




martedì 12 gennaio 2016

La distrazione d’azienda ovverosia perché accontentarsi?

Questa particolare categoria di asset misappropriation riguarda una frode difficilmente collocabile nella tassonomia corrente ma estremamente dannosa per l’impresa che ne è vittima.


Secondo la classificazione più utilizzata nella pratica (cfr. il concetto di Fraud Tree in J.T. Wells, “Corporate Fraud Handbook, Prevention and Detection”, John Wiley & Sons, Inc.) le frodi occupazionali si dividono in 3 grandi “famiglie”:
  • Corraption (corruzione e concussione);
  • Asset Misappropriation (appropriazione indebita di beni);
  • Fraudulent Statements (false dichiarazioni). 
Gli schemi di frode inclusi nella categoria “asset misappropriation” hanno come proprio oggetto materiale i singoli beni che compongono il patrimonio dell’impresa (es. disponibilità liquide, magazzino, impianti e macchinari, brevetti….etc).

Nell’esperienza professionale quotidiana si assiste però al compimento di una misappropriation che ha per oggetto una particolare categoria di asset: l’intera azienda (ovverosia il complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa).

Capita molto spesso che, soprattutto se un’impresa è in crisi o è addirittura decotta, i soci e/o gli amministratori vogliano proseguire l’attività liberandosi del peso dei debiti e mettendo allo stesso tempo al riparo dall’aggressione degli altri stakeholders gli asset più importanti dell’impresa.

A differenza di altri schemi di frode, è quasi impossibile codificare condotte “standard” poiché la casistica è ampia e variegata almeno quanto la creatività di coloro che perpetrano queste frodi (e dei consulenti che li assistono), tuttavia, in base alla giurisprudenza ed all’esperienza si possono individuare dei tratti comuni a questo insieme di condotte nonché alcuni schemi utilizzati con maggior frequenza.

Con riguardo ai tratti comuni, molti schemi per appropriarsi fraudolentemente dei mezzi di produzione di un’impresa condividono le seguenti caratteristiche:
  • sono complessi;
  • sono quasi esclusivamente compiuti dai vertici dell’impresa (soci ed amministratori);
  • sono perpetrati nel rispetto formale delle norme e delle comuni prassi giuridico-economiche;
  • richiedono abitualmente un certo tempo di preparazione ed implementazione;
  • richiedono di solito conoscenze giuridiche, economiche e contabili approfondite.
Con riferimento invece alle modalità operative più utilizzate, sono riportati di seguito in ordine, approssimativo e non esaustivo, di crescente complessità alcuni esempi scelti fra gli schemi operativi di frode più utilizzati:

1. Sviamento o storno della clientela: i soci e/o gli amministratori dell’impresa danno indicazioni alla clientela di rivolgersi ad un’entità a loro correlata diversa dall’impresa vittima di frode per le richieste di merce e servizi.

2. Cessione dell’azienda ad un’entità correlata agli amministratori e/o ai soci dell’impresa vittima: i soci e/o gli amministratori dell’impresa vittima di frode cedono l’azienda di produzione dell’impresa vittima di frode a un’entità a loro correlata. Di norma questo è accompagnato da pratiche volte alla simulazione del pagamento del corrispettivo oppure a forme di pagamento che non comportano da parte dell’entità cessionaria alcun esborso di denaro (i cosiddetti pagamenti “carta contro carta”).

3. Conferimento da parte dei soci e/o degli amministratori dell’intera azienda o della parte più redditizia in un’entità correlata: i soci e gli amministratori dell’impresa vittima conferiscono ad un’entità ad loro correlata l’azienda o la sua parte più redditizia. In seguito al conferimento, l’impresa vittima pertanto si trova, da un lato, priva dei flussi di cassa operativi per fare fronte ai propri debiti e, dall’altro, proprietaria di una partecipazione nell’entità conferitaria (elemento patrimoniale illiquido e soggetto a valutazione in base a criteri non univoci).

4. Frammentazione dell’azienda: soci e/o gli amministratori “fanno a fette” l’azienda attraverso la cessione ad entità a loro correlate di funzioni o elementi dell’attivo strategici per l’impresa vittima. Successivamente tra l’impresa vittima e l’entità cessionaria sono sottoscritti accordi di utilizzo a condizioni svantaggiose per l’impresa vittima (es. conferimento ad un’entità correlata ai soci o agli amministratori dell’immobile dove l’impresa vittima esercita la propria attività e successiva sottoscrizione di un contratto di locazione ad un canone elevato).

5. Affitto dell’azienda “blindato” a condizioni non di mercato: l’impresa vittima dà in affitto la propria azienda (quest’ultima di norma libera da debiti) ad un’entità correlata ai suoi soci e/o ai suoi amministratori a condizioni svantaggiose. Solitamente questi contratti prevedono canoni di affitto molto bassi e opzioni di acquisto dell’azienda a condizioni particolarmente vantaggiose per l’affittuaria ed estremamente vincolanti ed onerose per l’affittante. Come nel caso della cessione di azienda, anche queste operazioni molto spesso sono accompagnate da pratiche volte alla simulazione del pagamento del corrispettivo dovuto all’impresa vittima oppure prevedono forme di pagamento “carta contro carta” (es. pagamento dei canoni di affitto tramite la cessione di crediti inesigibili, compensazione con controcrediti di incerta origine vantati dall’affittuaria,…etc).

6. Suddivisione e successiva scissione dell’impresa fra una good company ed una bad company: i soci e/o gli amministratori effettuano nel rispetto formale delle norme un’operazione di scissione dell’impresa vittima di frode suddividendola in due entità distinte: la parte più redditizia (“good company”) e la parte meno appetibile (“bad company”). La good company prosegue l’attività dell’impresa scissa mentre la bad company nel breve/medio periodo va in fallimento o vi è condotta. Negli schemi più elaborati alla bad company è lasciata un po’ di liquidità che le permette di “stare in piedi” per qualche esercizio successivo alla scissione.

Data la complessità di questi schemi di frode, le consuete procedure di revisione non possono trovare un’applicazione pedissequa poiché la distrazione dell’azienda ricade in quella categoria di frodi compiuta da chi sovraintende alle tre tipologie fondamentali di attività di un’impresa (i.e. gestione dei beni, autorizzazione e registrazione delle operazioni) ovverosia chi è in grado di poter occultare con maggiore facilità le tracce della propria condotta.

Come si vedrà in un prossimo articolo, per individuare queste frodi si possono comunque applicare i principi e le metodologie generali di fraud examination.

Alberto Gabriele Piva
Dottore Commercialista Revisore - Legale dei Conti - Certified Fraud Examiner



lunedì 4 gennaio 2016

Rating di legalità, decollano le richieste e le assegnazioni

L’art. 5-ter del Decreto Legge n. 1/12, poi modificato dal Decreto Legge n. 29/12, convertito con modificazioni dalla Legge 62/12, prevede che: “Al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato è attribuito il compito (…) di procedere (...) alla elaborazione ed all’attribuzione, su istanza di parte, di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale che raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro, riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza (...). Del rating attribuito si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario (...). Gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”.


Si tratta quindi di un giudizio che l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) attribuisce, in presenza di particolari requisiti, alle aziende italiane virtuose nei comportamenti etici volti alla legalità nella gestione del proprio business.
Ma è anche uno strumento di promozione e sensibilizzazione all'onestà, alla rettitudine e alla trasparenza nel fare affari in un contesto sempre più spregiudicato e corrotto, con ripercussioni molto importanti per le aziende che lo ottengono al fine dell'accesso al credito bancario e al finanziamento pubblico.

Pertanto, secondo quanto previsto da AGCM, potranno richiedere l'attribuzione del rating le imprese:
  • italiane
  • che abbiano raggiunto un fatturato di € 2 milioni (singolarmente o di gruppo)
  • che tale fatturato risulti dall'ultimo bilancio regolarmente approvato
  • che siano iscritte al registro delle imprese da almeno 2 anni
L'istanza deve essere inoltrata all'AGCM direttamente dall'azienda che ne ha interesse, in via telematica, utilizzando gli appositi formulari e seguendo le istruzioni indicate sul sito.

Il rating è attribuito dall'Authority secondo un giudizio a "stellette" in base alle dichiarazioni delle aziende verificate attraverso controlli incrociati con i dati in possesso delle Pubbliche Amministrazioni.

Per ottenere il punteggio minimo (una stelletta) l’azienda dovrà dichiarare, ad esempio, che l’imprenditore e gli altri soggetti rilevanti ai fini del rating (direttore generale, amministratori, soci eccetera) non siano destinatari di misure di prevenzione e/o cautelari, sentenze penali di condanna o di patteggiamento per alcune tipologie di reato (reati tributari, d.lgs. 231/01 eccetera) ovvero che l'azienda non sia stata condannata nei due anni precedenti per illeciti antitrust o per violazioni del codice del consumo o ancora per il mancato rispetto delle norme a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro o degli obblighi retributivi, contributivi, assicurativi e fiscali nei confronti dei propri dipendenti e collaboratori. 

Il punteggio massimo si ottiene in presenza di altri requisiti oltre a quelli minimi richiesti, quali, ad esempio:
  • rispettare il Protocollo di legalità sottoscritto dal Ministero dell’Interno e da Confindustria;
  • utilizzare sistemi di tracciabilità dei pagamenti;
  • adottare un modello organizzativo ai sensi del d.lgs. 231/2001;
  • essere iscritte in uno degli elenchi di fornitori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa;
  • avere aderito a codici etici di autoregolamentazione adottati dalle associazioni di categoria.
Il rating di legalità ha durata di due anni dal rilascio ed è rinnovabile su richiesta. In caso di perdita di uno dei requisiti base, necessari per ottenere una "stelletta", l’Autorità dispone la revoca del rating. 
AGCM mantiene aggiornato sul proprio sito l’elenco delle imprese cui il rating di legalità è stato attribuito, sospeso, revocato, con la relativa decorrenza (cliccare QUI per visionare l'elenco).

Nel 2015 sono state 1.514 le aziende che hanno inoltrato la domanda ad AGCM per l'ottenimento del rating di legalità, con un incremento di quasi il 250% rispetto al 2014. 
Al 31 dicembre 2015 l'Authority ha attribuito 1.083 rating di legalità e ne ha negati 66 (QUI tutte le statistiche).


venerdì 11 dicembre 2015

False comunicazioni sociali: importante intervento della cassazione

di Alberto Gabriele Piva

Importante riflessione della Cassazione sugli effetti della riforma delle false comunicazioni sociali.
L’Ufficio del Massimario nella relazione n° V/003/15 del 2015 esamina la nuova disciplina delle false comunicazioni sociali alla luce della riforma intervenuta nel 2015 e delle prime sentenze emesse dalla stessa Corte subito dopo l’entrata in vigore della legge 27 maggio 2015, n. 69.
In particolare, l’Ufficio analizza gli orientamenti giurisprudenziali espressi dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza della sua Va Sezione Penale n.33774 del 16 giugno 2015 (la cosiddetta “sentenza Crespi”).

Nella relazione si esaminano approfonditamente le motivazioni alla base della sentenza, con particolare attenzione a quelle portate a supporto dell’irrilevanza delle valutazioni nell’ambito delle riformate false comunicazioni sociali.

Sul punto, l’Ufficio richiama le riflessioni di parte della dottrina (qualificata nella relazione come “attenta”) evidenziando come :

1. “una valutazione dev’essere naturalmente la valutazione di qualcosa, sicché per poter effettuare una valutazione di conseguenza, deve essere una realtà (materiale o anche solo giuridica qual un rapporto obbligatorio) da valutare”;

2. “l’ultimo momento della valutazione – nel senso ristretto che qui interessa di “valutazione di bilancio” – è dato dall’associazione di una grandezza numerica a ciò che si vuole valutare, ossia la misurazione, la quantificazione della realtà oggetto di valutazione”.

Sul punto, il documento sottolinea che “tra questi due elementi […] vi è l’insieme di regole, di principi, di ipotesi: vi è cioè il procedimento attraverso il quale avviene l’associazione di una grandezza numerica alla realtà sottostante” mostrando che “ove ci si soffermasse sul modello di stato patrimoniale previsto dall’art cod. civ. sarebbe facilmente constatabile come la stragrande maggioranza delle poste ivi contemplate sia frutto di procedimenti valutativi, peraltro esplicitamente disciplinati (soprattutto) dall’art.2426 cod. civ.”.

L’Ufficio prosegue in un’ampia disamina di tutti gli ulteriori aspetti relativi alla rilevanza o meno delle componenti valutative nell’ambito del falso in bilancio, alla fine della quale elabora una serie di considerazioni in merito alla nuova disciplina delle false comunicazioni sociali fra le quali:
  • […] il bilancio è costituito quasi del tutto da valutazioni e si basa su un metodo convenzionale di rappresentazione numerica dei fatti attinenti alla gestione dell’impresa […]”;
  • "[…] la maggior parte dei numeri che devono essere appostati in bilancio si riferisce non a grandezze certe, bensì solo stimate; […]
  • […] è quindi ineludibile la rilevanza penale della valutazione degli elementi di bilancio, essendo la sua funzione principale quella di indicare il valore del patrimonio sociale al fine di proteggere i terzi che entrano in rapporto con la società, e costituendo il patrimonio sociale la garanzia per i creditori (e più in generale la misura di questa garanzia per i terzi); nonché per i soci (soprattutto di minoranza) lo strumento legale di informazione contabile sull’andamento della compagine sociale; […]
  • la formazione del bilancio, quindi, implica necessariamente – oltre all’individuazione dei beni, dei costi e dei ricavi da iscriversi nel conto economico – la determinazione dei valori da attribuire ai singoli elementi del patrimonio;
  • […] non si può non tener conto, per l’esatta interpretazione della fattispecie di false comunicazioni sociali, delle cosiddette regole generali per la redazione del bilancio, cioè, del principio di chiarezza e di quello di rappresentazione veritiera e corretta;
  • […] veritiero vuol dire che gli amministratori non sono tenuti a una verità oggettiva di bilancio, impossibile da raggiungere per i dati stimati, ma impone a quest’ultimi di indicare il valore di quei dati che meglio risponde alla finalità e agli interessi che l’ordinamento vuole tutelare. […]
  • […] il bilancio è “vero” non già perché rappresenti fedelmente l’obiettiva realtà aziendale sottostante, bensì perché si conforma a quanto stabilito dalle prescrizioni legali in proposito. Si tratta di un “vero legale” stante la presenza di una disciplina legislativa che assegna valore cogente a determinate soluzioni elaborate dalla tecnica ragionieristica. […]”.
La presa di posizione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione ripropone ed incardina in un percorso giuridico rigoroso un orientamento – fatto proprio già da lungo tempo da chi si occupa nella pratica di bilanci e contabilità – secondo cui la redazione del bilancio è un processo necessariamente valutativo ed esso è vero nella misura in cui la traduzione dei fatti economici sia effettuata entro i limiti e con le codificazioni comunemente accettate.

Sotto questo punto di vista, questo blog già nel corso dei precedenti mesi (si veda in questo senso il post del 1 nov. 2015 disponibile al seguente link), pur senza effettuare ampi richiami di dottrina e giurisprudenza, aveva messo in luce che escludere le valutazioni dai criteri per determinare la “verità” o la “falsità” di un bilancio fa venire meno uno dei presupposti della redazione delle stesse scritture contabili e non coglie il carattere interpretativo della redazione del bilancio, il quale è un sistema di traduzione in numeri dei fatti economicamente rilevanti secondo una prassi codificata.

Gli autori di questo blog si auspicano che l’intervento dell’Ufficio del Massimario possa condurre ad una nuova interpretazione del tenore letterale delle riformate norme in tema di false comunicazioni sociali, che porti ad una concezione del bilancio che veda nell’attendibilità dei numeri un pilastro per la sicurezza e stabilità economica di qualsiasi nazione, in armonia con una prassi consolidata a livello mondiale.


* Alberto Gabriele Piva
Dottore Commercialista, Revisore Legale dei Conti e Certified Fraud Examiner 





martedì 24 novembre 2015

Segregation of duties: un efficacie strumento di contrasto alle frodi

di Alberto Gabriele Piva


Segregation of Duties o Separation of Duties (lett. segregazione o separazione dei compiti) è una modalità di organizzazione delle attività svolte in qualsiasi struttura sociale ed è stata considerata dal pensiero illuminista come uno degli elementi costitutivi della moderna concezione di Stato (si veda il concetto di separazione o tripartizione dei poteri in Montesquieu, “Lo spirito delle leggi”, 1748).

Nell'ambito dei sistemi di controllo interno la Segregation of Duties (SoD) è uno strumento efficacie per contrastare le frodi ed è spesso invocata come rimedio per ridurne il rischio.
Per effettuare un’efficacie SoD è necessario identificare i cicli operativi a rischio di frode ed individuare all'interno di questi le attività a maggiormente esposte a questo rischio.

Individuate le attività “a rischio frode”, si procede all'implementazione della SoD. Secondo la prassi internazionale (cfr fra i tanti ACFE, “Fraud-Related Internal Controls”, 2013), la segregazione dei compiti è efficacie se e solo se le attività di:
  • Autorizzazione ad eseguire operazioni;
  • Registrazione dei dati (relativi alle operazioni medesime); 
  • Gestione e movimentazione (fisica o virtuale) dei beni oggetto delle operazioni; 
sono svolte da persone o, più in generale, da entità indipendenti fra loro.


Se una persona o un’entità svolge allo stesso tempo almeno due di queste attività, si creano occasioni per commettere frodi. Infatti:
  • se una persona o un’entità dispone dei poteri per autorizzare operazioni ed allo stesso tempo ne cura la registrazione, essa può scegliere alternativamente di omettere la registrazione delle operazioni oppure di falsificarne i dati presenti nel sistema informativo (es. tramite l’alterazione delle scritture contabili o di altri dati tecnico-economici presenti nel sistema informativo dell’organizzazione). 
  • se una persona o un’entità dispone dei poteri per autorizzare transazioni ed allo stesso tempo è responsabile della gestione e movimentazione dei beni oggetto delle stesse operazioni, essa può distrarre risorse dall'organizzazione attraverso la realizzazione di transazioni formalmente rispettose delle procedure ma fraudolente nella loro sostanza (es. transazioni effettuate in conflitto d’interessi e/o a condizioni non di mercato, interposizione fittizia di entità correlate). 
  • se una persona o un’entità è incaricata di gestire i beni di un’organizzazione ed allo stesso tempo cura la registrazione dei dati relativi alle transazioni collegate a quegli stessi beni, essa può appropriarsi indebitamente dei beni “intercettandoli” prima che la loro acquisizione sia rilevata nei sistemi informativi dall'organizzazione oppure essa può fare un uso indebito o addirittura illegale dei beni dell’organizzazione ad insaputa di quest’ultima (es. appropriazione di incassi da clienti con rilevazione nel sistema informativo dell’organizzazione di “perdite per inesigibilità” per un ammontare pari a quello degli incassi distratti, furto di beni aziendali, peculato d’uso). 
In tutti questi casi, sebbene la possibilità di prevenire le frodi si riduca molto, è ancora possibile individuare quelle già commesse prestando attenzione alle incongruenze (c.d. red flags) individuabili mediante un confronto tra:
  • i dati elaborati dall'organizzazione; 
  • i dati e le informazioni forniti da terze parti (meglio se indipendenti);
  • la verifica dell’effettiva situazione di fatto e di diritto dei beni dell’organizzazione. 
Molto più difficile è invece prevenire ed individuare frodi nel caso in cui una persona o un’entità accentri su di sé lo svolgimento di tutte le attività di un’organizzazione.
In questi casi, la possibilità di prevenire ed individuare frodi è di gran lunga inferiore. Infatti, chi svolge o sovraintende allo svolgimento di tutte le attività (i.e. gestione dei beni, autorizzazione ed registrazione delle operazioni) non solo ha la possibilità di commettere frodi ma anche di eliminarne le tracce delle transazioni fraudolente cancellando molte delle incongruenze rilevabili. 

In questo ambito rientrano non solo le frodi compiute da persone o entità alle dipendenze di un’organizzazione ma quelle compiute da chi dirige ed amministra l’intera organizzazione ovverosia i suoi vertici. Chi sovraintende l’intera operatività di un’organizzazione ha in sé non solo il potere di autorizzare l’esecuzione di operazioni ma anche quello di gestire i beni collegati a tutte le transazioni ed di elaborarne le relative informazioni.

La SoD è quindi un strumento molto efficacie per ridurre il rischio di frode tuttavia, come ogni attività di controllo e prevenzione, essa comporta per l’organizzazione il sostenimento di costi e può provocare una perdita di efficienza complessiva (es. riduzione della velocità nell'esecuzione dei compiti). 

La SoD è in ogni caso poco efficacie nei casi di frodi commesse dai vertici di un’organizzazione.

Un sistema anti-frode ed in generale un sistema di controllo interno efficiente è frutto di una valutazione dei benefici e dei costi generati dall'implementazione del controllo e dall'importanza che le attività oggetto di segregazione hanno all'interno dell’organizzazione. L’efficacia dei controlli anti-frode ed in generale dell’intero sistema dipende invece dalla condotta delle persone che appartengono ad un’organizzazione ed in particolare dei suoi vertici.

Alberto Gabriele Piva
Dottore commercialista e Revisore legale dei conti