Si tratta di un dubbio giuridico, che, anche senza scomodare Amleto, ha contrapposto per decenni due importanti scuole di pensiero.
La domanda non è banale: può un ordinamento giuridico fondare una condanna su prove acquisite illegalmente?
Ovvero, può una prova esser assunta e valutata da un giudice, se è il frutto della violazione di diritti fondamentali?
O ancora, l'illegittimità di un'operazione di perquisizione può pregiudicare il successivo sequestro delle cose o dei dati utili ad accertare la verità?
Nelle seguenti righe non si proverà nemmeno lontanamente a proporre una disamina dettagliata sull'argomento. Piuttosto ci si limiterà a richiamare le due teorie contrapposte, lasciando ogni riflessione e approfondimento al lettore interessato.
Negli anni '20 fu elaborata negli Stati Uniti d'America la teoria dei "frutti dell'albero avvelenato" che precludeva l'utilizzo di ogni risultato ottenuto in seguito ad attività investigative illegittime.
"Al pari di una pianta velenosa, di cui non è commestibile frutto alcuno (...) qualunque dato anche indiretto, circostanziale o indiziario, acquisito a seguito di un atto incostituzionale di ricerca della prova (...) è radicalmente inutilizzabile ad ogni effetto" (L.P. Comoglio, Perquisizione illegittima ed inutilizzabilità derivata).
Secondo questa scuola di pensiero, la mancata osservazione di questo principio avrebbe certamente favorito, quando non addirittura incoraggiato, investigazioni illegali.
Naturalmente, come per tutti i più sani principi giuridici, anche per la teoria dei "frutti dell'albero avvelenato" furono definiti limiti e criteri di applicazione che, ad esempio, permisero l'utilizzabilità delle prove assunte in modo illegittimo o irrituale ogni qualvolta fu accertata l'irrilevanza dell'illecito perpetrato nel corso della perquisizione.
Negli anni '60 e '70 anche in Italia si svilupparono nuove correnti di pensiero in seguito a vivaci dibattiti nell'ambito della letteratura giuridica e accademica. Le riflessioni permisero di chiarire che l'utilizzabilità probatoria delle cose o dei dati pertinenti il reato, non acquisiti secondo legge, è legata al più generale principio giuridico del "libero convincimento del giudice", il quale, può avvalersi, salvo le eccezioni specificamente previste dalla legge, di ogni mezzo di prova anche se queste sono state acquisite senza l'osservanza delle formalità legali.
Da questa contrapposizione di idee, nacque la teoria del "male captum bene retentum", brocardo latino che può essere reso in italiano come il principio secondo il quale sebbene acquisita illegalmente la prova è utilizzabile.
La costruzione del principio, prevalente nell'ordinamento giuridico italiano, basa le proprie fondamenta sulla distinzione tra perquisizione e sequestro e sulla insussistenza di alcun vincolo di dipendenza tra queste due fasi dell'investigazione.
Pertanto l'illegittimità della prima non intacca per nulla la legittimità della seconda.
Anche in questo caso, la giurisprudenza ha trovato limitazioni e importanti criteri d'applicazione per non degenerare nell'assunto machiavellico che ogni acquisizione di una prova prescinde dal metodo utilizzato per ottenerla.
Come per la teoria dei "frutti dell'albero avvelenato", anche in questo caso l'obiettivo fondamentale rimane il bisogno di "verità reale" del processo penale.
Pertanto se la Polizia Giudiziaria effettua una perquisizione domiciliare senza autorizzazione dell'Autorità Giudiziaria, cioè su propria iniziativa, ma in mancanza delle ragioni d'urgenza, e sequestra 5 kg di cocaina, l'imputato difficilmente otterrà un provvedimento a suo favore finalizzato a dichiarare l'inutilizzabilità della sostanza stupefacente quale mezzo di prova, in quanto acquisito in spregio alle leggi vigenti.
In questo caso sarà l'ordinamento medesimo a considerare del tutto irrilevanti i metodi di acquisizione (e qui c'è un punto di unione tra le due teorie sopracitate, che in questa prospettiva poco si contrappongono arrivando entrambe a giustificare i mezzi poco ortodossi per raggiungere i fini superiori).
Va segnalato, da ultimo, che l'ordinamento giuridico italiano si è recentemente arricchito di nuovi strumenti legislativi più vicini alla teoria dei "frutti dell'albero avvelenato", in presenza di interessi particolarmente rilevanti e strategici come la sicurezza dello Stato e la segretezza della corrispondenza.