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giovedì 20 marzo 2014

Prevenire le frodi attraverso il modello organizzativo 231. Utopia?

Le cronache continuano ad evidenziare un incremento considerevole dei casi di frode aziendale, in tutti i contesti merceologici con il coinvolgimento anche di realtà molto grandi e strutturate, nonostante la "231" e il suo continuo arricchimento con nuovi reati presupposto.

Questo porterebbe a confermare ciò che ormai da alcuni anni si sente sussurrare ai convegni sui modelli organizzativi ex dlgs 231. Considerazioni esplicitate più o meno timidamente anche da navigati internal auditor, autorevoli magistrati ed esponenti delle forze di polizia economico-finanziaria o da illustri accademici. Prese d'atto di un sistema che non sembra funzionare affatto per come è stato progettato.
E che probabilmente non ha mai funzionato.




E' doveroso dopo più di un decennio, con assoluta onestà, fare il punto sull'utilità attuale dei modelli organizzativi 231. Sulla loro capacità di prevenire i comportamenti illeciti, sulla loro validità a mitigare le vulnerabilità e le debolezze di una governace piena di conflitti d'interesse. Di una governance che troppe volte ha visto i modelli di prevenzione del rischio di frode, tra i quali vanno assolutamente compresi i modelli organizzativi 231, come un vero e proprio intralcio alla competitività.

Nel 2001 si sperava che responsabilizzando le aziende sull'enorme problematica della criminalità economico-finanziaria, sul suo dilagare anche nei contesti tradizionalmente più immuni, nel tempo si sarebbero ridotti i fenomeni fraudolenti riportando la patologia a livelli tollerabili.
E' successo esattamente il contrario.

In generale la 231 è rimasta una semplice procedura scritta sulla carta e archiviata su di uno scaffale, come tante altre. In bella mostra e da esibire al magistrato di turno.
Una sorta di polizza assicurativa a tutela degli "imprevisti" di percorso, sempre possibili nella vita aziendale.
Un modello a volte banale, il cui merito più probabile è stato quello di aver dato lavoro a parecchie schiere di professionisti.

Col senno di poi, la strategia migliore sarebbe stata innanzitutto quella di favorire o promuovere una robusta formazione di bravi fraud auditor, esperti di prevenzione delle frodi aziendali (fraud risk management) e di mappatura dei rischi collegati (fraud risk assessment). Introducendo corsi specialistici negli indirizzi universitari economico-giuridici e nei corsi post-laurea.
E successivamente, una volta formati i professionisti, introdurre i modelli organizzativi da sviluppare e gestire con un approccio del tutto diverso da quello tipico dell'internal auditing.
Il modello 231 in questo caso sarebbe stato uno strumento formidabile nella mani di fraud auditor esperti e non un'occasione mancata.

Ma le cose, rispetto alle aspettative originarie, con tutta evidenza, sono andate diversamente.