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giovedì 26 marzo 2015

Un "sistema fallimentare"

di Giorgio BRUGHERA*

La legge fallimentare, emanata nel 1942 e più volte emendata, dopo una serie di cambiamenti di orientamento legislativo e “politico”, sta dimostrando di avere gravi limiti determinati dal deterioramento del quadro sociale. Oggi, purtroppo, la regola non è più quella della gestione aziendale mirata alla continuazione ma quella di trarre vantaggio dall’azienda, ad ogni costo.

All'interno di questo quadro si collocano una miriade di comportamenti che possono portare a situazioni patologiche anche le aziende sane.

Vi è quindi da domandarsi che validità abbiano oggi le sanzioni e le norme previste per i reati fallimentari.

Le disposizioni penali previste dagli artt. 216-235 della legge fallimentare – R.D. 267/1942 – trovano il loro limite all'applicazione nel dettato delle norme stesse che come presupposto necessario hanno la dichiarazione di fallimento; infatti gli incisi “se è dichiarato fallito” ovvero il riferimento a “società dichiarate fallite” non lasciano spazio a dubbi.

Spesso capita che per evitare il fallimento della società, che si trova in stato di insolvenza, i soci ovvero gli stakeholders di varia natura intervengano ricapitalizzando o assoggettando l’impresa a procedure e accordi prefallimentari non a costo zero. In tali casi la salvaguardia della continuità aziendale viene però a privare gli artt. 216-235 del presupposto fondamentale di applicazione: la dichiarazione di fallimento; quindi in numerosissimi e deprecabili casi le disposizioni penali della legge fallimentare restano lettera morta.

Il R.D. 267/1942 era stato concepito in assenza di una serie di istituti, riguardanti anche le grandi imprese, che furono introdotti in periodo repubblicano, con lo scopo di salvaguardare principalmente il lavoro (art. 4 Cost.) generato dalle imprese in stato di difficoltà.

Oggi la realtà economica, stante una grande varietà di istituti alternativi al fallimento, ha dimostrato che un amministratore infedele può mettere sul lastrico un’impresa non avendo quasi problemi e restando indenne dalle norme penali previste dalla legge fallimentare. Questo fatto determina l’incertezza dei rapporti economici e dei rapporti management-proprietà all'interno delle società, non profilandosi più una funzione sanzionatoria penalistica deterrente per certi comportamenti. Il tutto ha anche il grave costo sociale di rendere rischiosi gli investimenti nel nostro paese, in particolare la formazione di società con partecipazione di soggetti non residenti, con riflessi occupazionali negativi di non poco rilievo.

Il problema, provvisoriamente, in attesa di un nuovo disegno del quadro normativo, potrebbe essere risolto sostituendo il presupposto della dichiarazione di fallimento con quello dell’accertamento giudiziale dello stato di grave dissesto, che non coincide con lo stato di insolvenza; l’accertamento giudiziale di quest’ultimo, a norma dell’attuale legge, comporta infatti la dichiarazione di fallimento.

Prendendo come presupposto per l’applicazione delle norme penali la dichiarazione di “grave dissesto” si avrebbe così l’applicazione delle norme previste dagli artt. 216-235, qualunque sia la sorte dell’impresa.

In pratica, oltre alla fattispecie giuridica del “grave dissesto”, sarebbe sufficiente introdurre il nuovo reato di “procurato dissesto” che potrebbe avere come presupposto applicativo l’accertamento giudiziale del grave dissesto, dissesto che si individua, anche in via preventiva, nell'incapacità societaria in un futuro prossimo (ad esempio 12 mesi) di adempiere alle proprie obbligazioni in mancanza di ricapitalizzazione da parte dei soci o di stakeholders ovvero con il ricorso ad istituti alternativi al fallimento.

Come elementi costitutivi del procurato dissesto si potrebbero individuare:
  1. l’attuazione, da parte dei soggetti coinvolti – anche esterni, incluso il c.d. amministratore occulto, di atti di gestione e non, costituenti o non costituenti reato, ma, per quest’ultimi, non aventi una ragione economica, tali da condurre, nel primo caso, la società in situazione di grave dissesto ovvero, nel secondo caso, tali da causare intenzionalmente il grave dissesto societario;
  2. la conoscenza preventiva degli effetti degli atti compiuti sulla situazione economica societaria. La conoscenza preventiva si dovrebbe ritenere conosciuta, ai sensi di legge, sulla base delle competenze professionali del soggetto ovvero dalla precedente sottoposizione a procedimento penale dello stesso per analogo reato societario.
Sanzione accessoria dovrebbe essere l’interdizione perpetua da ruoli amministrativi societari.

E’ ovvio che questo può solo essere un palliativo in attesa di un nuovo provvedimento legislativo esaustivo, finora nemmeno ipotizzato, che riguardi la crisi d’impresa a partire dagli atti amministrativi aziendali contra legem che la innescano, includendo le scelte antieconomiche scientemente (dolo) effettuate anche se formalmente non illecite, per arrivare a dei veri e propri reati autonomi contro la continuità aziendale. Con questa nuova normativa sarebbero inoltre soggetti legittimati ad agire tutti gli stakeholders, in particolare i soci non amministratori, particolari creditori e i lavoratori.

In pratica si auspica una normativa preventiva, e non “post mortem” come è stata finora, che coinvolga i soggetti interessati nella salvaguardia aziendale che diventerebbe quindi un bene socialmente condiviso, con il superamento delle anacronistiche barriere padronato/lavoratori e creditori/debitori.

Il fallimento, quindi l’estinzione dell’impresa, dovrebbe diventare un tragico punto di arrivo solo in casi senza soluzione, con dei reati propri limitati all'ambito della procedura post-fallimentare.

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* Giorgio Brughera è Dottore Commercialista iscritto all'Ordine di Milano e Revisore Legale dei Conti