Si tratta di Ermelindo Lungaro, docente al Master Anticorruzione dell’Università Tor Vergata di Roma e presidente di diversi board di vigilanza aziendale, senza dubbio uno dei principali professionisti del settore.
Riportiamo nel seguito l'estratto dell'articolo pubblicato dal Giornale di Sicilia.
di Andrea D'Orazio (Giornale di Sicilia)
È sempre lì, dietro l’angolo, pronta a farsi strada tra gli affari pubblici e privati ogni volta che girano soldi e appalti. Si chiama corruzione, e quando viene a galla, puntualmente, trascina con sé una domanda: è davvero possibile bloccare il malaffare, fermarlo alla radice prima che si manifesti? Ermelindo Lungaro, docente al Master Anticorruzione dell’università Tor Vergata di Roma, presidente di diversi board di vigilanza aziendale, nipote dell’eroe partigiano Pietro Ermelindo a cui è dedicata una caserma di polizia a Palermo, è fermamente convinto «che la prevenzione è a portata di mano, visto che l’Italia, quantomeno in linea teorica, ha degli anticorpi che gli altri Paesi neanche si sognano».
Cioè?
«Un sistema normativo all’avanguardia basato su due pilastri: la legge 231 del 2001, che prevede l’esistenza di organismi di controllo interni alle imprese, e la 190 del 2012 - la cui cabina di regia è affidata all’Anac di Raffaele Cantone - che ha introdotto la logica preventiva anche nella pubblica amministrazione e nelle società partecipate, per arginare la cosiddetta corruzione passiva, quella dei funzionari infedeli che intascano mazzette per orientare l’assegnazione delle commesse. Ma evidentemente una solida base giuridica non basta».
Perché? Cosa vanifica questi «anticorpi»?
«Due fattori, che nella mia carriera riscontro soprattutto nel settore pubblico, uno di tipo culturale, l’altro legato a un problema di competenze. Il primo, dipende da un’ignoranza diffusa: in pochi sanno come funziona davvero la legge, che rimane il più delle volte solo un pezzo di carta. La norma anticorruzione prevede, ad esempio, l’attuazione di piani di prevenzione, ma in molti enti e società pubbliche questi programmi non vengono né aggiornati né concretamente applicati. A monte, c’è anche e soprattutto un problema politico. Dovrebbe essere la classe dirigente a dare l’input, ma manca la volontà, o per superficialità o peggio ancora per tornaconto personale».
E la questione della competenza? La legge prevede anche la figura di un responsabile interno che sorvegli la macchina amministrativa.
«Per prevenire la corruzione non si può improvvisare, bisogna avere grande esperienza, anche perché la stessa normativa, in ambito pubblico, richiede di andare oltre l’approccio formale: prevede un lavoro di fino, chirurgico, per andare a scovare le aree grigie dove si annida il malaffare. Purtroppo, il più delle volte, i responsabili interni della vigilanza non sono all’altezza del compito, hanno un deficit di preparazione e si limitano al compitino, al meccanico adempimento dei programmi di prevenzione».
Lei di piani ne ha stilati diversi, per aziende e comuni, anche per l’Anci, e ha girato l’Italia per spiegare ai manager come si combatte il fenomeno corruttivo. Cosa insegna a tutti loro?
«Che la normativa anticorruzione è lo strumento ideale per togliere un po’ di scheletri dall’armadio, per fare un po' di pulizia e rendere le società che amministrano più trasparenti e, di conseguenza, più efficienti. Il messaggio è: vigilate, e non esitate a denunciare chi commette un illecito. Devo dire che vengo ascoltato più dai manager del settore privato. Hanno meno remore a vuotare il sacco, forse perché sono più attenti al rischio di impresa, perché capiscono che la corruzione può distruggere l’immagine e il profitto aziendale».