Qualche anno fa mi trovai a passare davanti all'aula del Tribunale di Milano presso la quale si stava celebrando il processo Parmalat.
Avevo appena terminato alcuni impegni professionali all'interno del palazzo ma la mattina era fredda e piovosa e non mi andava di reintrodurmi subito nel traffico caotico di Milano.
Così entrai in quell'aula d'udienza. Più per perder tempo che per curiosità.
Era affollatissima.
Facendomi largo mi posizionai in un angolo. Poco dietro la linea dei giornalisti giudiziari e di fianco ad un ometto completamente calvo, sulla ottantina.
Ho pensato fosse uno dei tanti pensionati frequentatori dell'arena giudiziaria vista come alternativa ad altre attività ricreative, nella quale appassionarsi a costo zero assistendo al quotidiano match tra noti e meno noti registi, attori e comparse.
Uno dei tanti appassionati spettatori che spesso mi capita di intravedere nelle retrovie, quando partecipo ai processi come consulente tecnico. Solitamente molto preparati, persino più degli addetti ai lavori!
Armati come sono di apposito taccuino su cui annotare i particolari, le incongruenze e le contraddizioni ed anche gli strafalcioni e gli eccessi della difesa come dell'accusa.
Non esitai quindi a salutare quell'uomo con simpatia, il quale subito si rivolse a me con una domanda secca: "
avvocato?".
Io: "
scusi?". Il brusio intorno a noi era notevole.
"
Lei è avvocato?" mi ripeté con voce più alta.
"
No, no!" risposi. "
Mi trovo qui per caso. Di che si tratta?".
Il breve dialogo che seguì mi chiarì che il mio interlocutore doveva avere origini romane. O di quelle parti.
Mi concentrai quindi per qualche minuto sul dibattimento in corso.
Si trattava dell'esame di un teste. Una persona molto distinta, sulla cinquantina, ben vestita. Preparata a rispondere in modo controllato e pacato, nonostante fosse incalzato dal Pubblico Ministero e richiamato più volte ad essere più preciso dal Presidente del collegio giudicante.
Ad un certo punto l'anziano sbottò e voltandosi verso di me disse qualcosa del genere: "
...ma alora sti revisò che cé stanno a fàà?!?? Se nun le trovano loro le magagne chi cé deve pensá-áá? ...la ruberia non se fà trovà da sola sventolando er fazzoletto!!".
Naturalmente l'interrogativo mi fu posto con accenti di folclore che qui mai potrei citare alla lettera.
Sorrisi. Feci la classica "faccia solidale" che in questi momenti viene automatica e alzai le braccia elevando gli occhi al cielo.
Ma non risposi, ritenendo di non essere assolutamente all'altezza di liquidare la questione con altrettanta schiettezza e spontaneità.
Non ricordo altro di quella mattina.
Ma quell'interrogativo tanto semplice quanto genuino, mi fece pensare molto.
Al di là del fatto che in quel caso specifico al termine del processo si appurò che i revisori non erano per nulla estranei alle attività fraudolente, per i casi di assenza di responsabilità diretta nell'evento criminoso avrei avuto la risposta "giusta".
Una risposta "programmata". Nell'ambiente si classificherebbe come "risposta standard".
Già sperimentata con successo in molti procedimenti penali.
Però me ne sono stato zitto.
Forse per una forma di pudore davanti a quell'indignazione.
Sapevo infatti che la mia risposta non avrebbe convinto quell'uomo.
"
Vede, l'obiettivo dell'istituto della revisione legale dei conti non è quello di trovare le frodi!".
Avrei saputo fare anche di "meglio" integrando la risposta con dotte ed erudite osservazioni, anch'esse "standard".
Infatti, si sà! Ben due blasonati principi di revisione (l'americano SAS 99 e l'internazionale ISA 240, ma se si vuole anche il taiwanese TSAS 43 o l'italiano "documento 240") hanno già chiarito che l'identificazione delle frodi spetta in via principale al management.
Cioè a coloro che amministrano, dirigono, controllano, rappresentano, gestiscono e governano l'azienda.
Al revisore invece tocca applicare la lunga serie di procedure di verifica adottando un approccio che si definisce "scetticismo professionale".
Lo scetticismo, seppur elemento soggettivo, è attuato in modo "professionale". Pertanto il revisore compie "
una valutazione critica, interrogandosi sulla validità degli elementi probativi acquisiti e prestando particolare attenzione a quegli elementi probativi che contraddicono o mettono in discussione l’affidabilità della documentazione esaminata o delle attestazioni della direzione".
Domanda: ma il revisore dei conti è sufficientemente formato riguardo ad un fenomeno tanto complesso quanto diffuso qual è quello delle frodi aziendali?
A tal proposito, il SAS 99 e lo ISA 240 richiamano le teorie ideate negli anni '30 e '40 del secolo scorso dal sociologo Cressey, che vanno sotto il nome di "
fraud triangle theory".
Sintetizzando molto l'illustre (quanto brontosaurica) teoria, si commette una frode quando "
i propri codici etici e morali non sono più in grado inibire le pressioni indotte dalla continua ricerca di appagamento dei bisogni".
In altre parole (mi scusino i lettori più esigenti), chi ruba è vittima della debolezza della propria natura umana che non è più in grado di evitare la caduta in tentazione...
Preferisco non andare oltre.
So da me che l'argomento meriterebbe ben altro approfondimento, ben altro approccio, ben altro palcoscenico.
Tuttavia, molto più semplicemente, quella mattina di qualche anno fa, in quel contesto, è stato molto meglio decidere di tacere!
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