La corruzione in Italia rappresenta una vera e propria tassa occulta.
E' una piaga diffusa e generalizzata che ci costa almeno 60 miliardi di euro all'anno (stima della Corte dei Conti). Risorse ingenti che potrebbero essere impiegate per la crescita economica e per l'allentamento della pressione fiscale.
Secondo alcuni studiosi (ad esempio il Prof. Friedrich Schneider dell’Università di Linz) il danno complessivo subito dal sistema Italia a causa della corruzione, comprendendo i costi "striscianti" e "latenti", si aggira intorno ai 280 miliardi di euro all'anno.
Basti pensare che il costo per un appalto al termine dei lavori lievita in media del 40% rispetto all'importo preventivato. In Italia, dunque, non abbiamo business planner competenti? Oppure ci sono componenti negative di reddito difficilmente prevedibili che magicamente si materializzano in corso d'opera?
Una corruzione generalizzata spinge molte imprese italiane oneste a trasferirsi all'estero e determina la diminuzione di circa il 16% degli operatori stranieri disposti ad investire da noi.
In base ai dati pubblicati in questi giorni, le grandi e medie aziende a causa della corruzione perdono in media il 25% del loro potenziale di crescita, percentuale che sale al 40% per le realtà economiche più piccole.
E' un fardello impressionante che impedisce la concorrenza, allontana gli investitori, penalizza lavoratori e consumatori e rallenta lo sviluppo.
Se solo le aziende inserissero tra le proprie file sentinelle competenti nella lotta alla corruzione, incrementerebbero dal 2,4% al 3% il loro fatturato già il primo anno. Naturalmente questo implicherebbe una seria e generalizzata volontà a combattere questi fenomeni illeciti da parte di amministratori e manager.
In fatto di corruzione l'Italia è piazzata al 69° posto nella classifica internazionale (Corruption Perception Index a cura di Transparency International), posto condiviso con il Ghana e la Macedonia e in Europa davanti solo a Grecia, Romania e Bulgaria.
Parallelamente ai gravi danni economici che impattano direttamente sui bilanci delle aziende, si rileva una sfiducia generalizzata (interessa l'87% degli italiani) per la classe dirigente e politica del nostro Paese.
In una scala da 1 (percezione minima della corruzione) a 5 (percezione massima), i partiti politici "vantano" un indice pari a 4.4, il Parlamento pari a 4, il settore privato e la pubblica amministrazione condividono il non invidiabile punteggio di 3.7.
Ma il dato che più mi impressiona è contenuto nel "Report to the Nations on occupational fraud and abuse" curato dell'Association of Certified Fraud Examiners (ACFE).
La survey condotta su base planetaria, evidenzia come il 43,3% dei comportamenti illeciti che si verificano all'interno delle aziende, sia segnalato dai lavoratori (impiegati e operai) e solo in minima parte è individuato dagli ormai numerosissimi organismi di vigilanza e controllo presenti in azienda.
In questo caso si è legittimati a domandarsi: ma a che cosa servono i poteri ispettivi, informativi, di vigilanza e controllo, propri di collegi sindacali, revisori legali dei conti, organismi di vigilanza ex d.lgs. 231/01, consigli di sorveglianza, comitati per il controllo sulla gestione, autorità pubbliche di vigilanza, internal audit committee, eccetera eccetera... se poi le frodi vengono scoperte e denunciate da "semplici" lavoratori?
Non si può dire che in Italia manchino i controlli, anzi, sembra che ce ne sia la proliferazione. Ma che efficacia possono avere meccanismi o apparati generalmente impreparati ad indagare e gestire correttamente i casi di frode, poco coordinati tra loro, con imbarazzanti quanto tragicomiche sovrapposizioni di competenze e poteri e di derivazione quasi esclusiva di corporazioni ed interessi particolari?
La lotta alla corruzione non si fa incrementando in modo confuso il numero degli organismi di controllo, ma, a mio avviso, deve partire da una riformulazione del concetto stesso di "vigilanza e controllo". Rendendo più efficaci le strutture che già ci sono, oppure, soluzione a mio avviso migliore, pensando a nuovi modelli, magari traendo spunto dai paesi più virtuosi del nostro nelle attività di contrasto ai fenomeni di criminalità economica.
Infine, ritengo che non sia più prorogabile agire sul fronte della deterrenza (certezza della pena), della legislazione (re-introduzione del falso in bilancio), dell'efficienza investigativa (coordinamento internazionale e procedure rogatoriali più efficienti), della diffusione della cultura dell'onestà in politica e in azienda, dell'indipendenza e terzietà da ogni corporazione di chi è preposto alla vigilanza e al controllo...
E' una piaga diffusa e generalizzata che ci costa almeno 60 miliardi di euro all'anno (stima della Corte dei Conti). Risorse ingenti che potrebbero essere impiegate per la crescita economica e per l'allentamento della pressione fiscale.
Secondo alcuni studiosi (ad esempio il Prof. Friedrich Schneider dell’Università di Linz) il danno complessivo subito dal sistema Italia a causa della corruzione, comprendendo i costi "striscianti" e "latenti", si aggira intorno ai 280 miliardi di euro all'anno.
Basti pensare che il costo per un appalto al termine dei lavori lievita in media del 40% rispetto all'importo preventivato. In Italia, dunque, non abbiamo business planner competenti? Oppure ci sono componenti negative di reddito difficilmente prevedibili che magicamente si materializzano in corso d'opera?
Una corruzione generalizzata spinge molte imprese italiane oneste a trasferirsi all'estero e determina la diminuzione di circa il 16% degli operatori stranieri disposti ad investire da noi.
In base ai dati pubblicati in questi giorni, le grandi e medie aziende a causa della corruzione perdono in media il 25% del loro potenziale di crescita, percentuale che sale al 40% per le realtà economiche più piccole.
E' un fardello impressionante che impedisce la concorrenza, allontana gli investitori, penalizza lavoratori e consumatori e rallenta lo sviluppo.
Se solo le aziende inserissero tra le proprie file sentinelle competenti nella lotta alla corruzione, incrementerebbero dal 2,4% al 3% il loro fatturato già il primo anno. Naturalmente questo implicherebbe una seria e generalizzata volontà a combattere questi fenomeni illeciti da parte di amministratori e manager.
In fatto di corruzione l'Italia è piazzata al 69° posto nella classifica internazionale (Corruption Perception Index a cura di Transparency International), posto condiviso con il Ghana e la Macedonia e in Europa davanti solo a Grecia, Romania e Bulgaria.
Parallelamente ai gravi danni economici che impattano direttamente sui bilanci delle aziende, si rileva una sfiducia generalizzata (interessa l'87% degli italiani) per la classe dirigente e politica del nostro Paese.
In una scala da 1 (percezione minima della corruzione) a 5 (percezione massima), i partiti politici "vantano" un indice pari a 4.4, il Parlamento pari a 4, il settore privato e la pubblica amministrazione condividono il non invidiabile punteggio di 3.7.
Ma il dato che più mi impressiona è contenuto nel "Report to the Nations on occupational fraud and abuse" curato dell'Association of Certified Fraud Examiners (ACFE).
La survey condotta su base planetaria, evidenzia come il 43,3% dei comportamenti illeciti che si verificano all'interno delle aziende, sia segnalato dai lavoratori (impiegati e operai) e solo in minima parte è individuato dagli ormai numerosissimi organismi di vigilanza e controllo presenti in azienda.
In questo caso si è legittimati a domandarsi: ma a che cosa servono i poteri ispettivi, informativi, di vigilanza e controllo, propri di collegi sindacali, revisori legali dei conti, organismi di vigilanza ex d.lgs. 231/01, consigli di sorveglianza, comitati per il controllo sulla gestione, autorità pubbliche di vigilanza, internal audit committee, eccetera eccetera... se poi le frodi vengono scoperte e denunciate da "semplici" lavoratori?
Non si può dire che in Italia manchino i controlli, anzi, sembra che ce ne sia la proliferazione. Ma che efficacia possono avere meccanismi o apparati generalmente impreparati ad indagare e gestire correttamente i casi di frode, poco coordinati tra loro, con imbarazzanti quanto tragicomiche sovrapposizioni di competenze e poteri e di derivazione quasi esclusiva di corporazioni ed interessi particolari?
La lotta alla corruzione non si fa incrementando in modo confuso il numero degli organismi di controllo, ma, a mio avviso, deve partire da una riformulazione del concetto stesso di "vigilanza e controllo". Rendendo più efficaci le strutture che già ci sono, oppure, soluzione a mio avviso migliore, pensando a nuovi modelli, magari traendo spunto dai paesi più virtuosi del nostro nelle attività di contrasto ai fenomeni di criminalità economica.
Infine, ritengo che non sia più prorogabile agire sul fronte della deterrenza (certezza della pena), della legislazione (re-introduzione del falso in bilancio), dell'efficienza investigativa (coordinamento internazionale e procedure rogatoriali più efficienti), della diffusione della cultura dell'onestà in politica e in azienda, dell'indipendenza e terzietà da ogni corporazione di chi è preposto alla vigilanza e al controllo...