La carne di cavallo nelle lasagne alla bolognese e nel ragù delle confezioni di pasta fresca, fino all'ipotesi più inquietante della carne di cane utilizzata per la preparazione dei cibi.
Batteri coliformi solitamente presenti nelle feci scoperti in Cina nelle torte al cioccolato dell’Ikea, tranci di carne scaduta da otto anni trovati nei congelatori di un grossista di Milano (...)
Certamente un'inchiesta shock quella condotta dai giornalisti Mara Monti (Il Sole 24 Ore) e Luca Ponzi (RAI), basata su documenti inediti, indagini sul campo, atti giudiziari di procedimenti penali alcuni dei quali ancora alle prime battute.
247 pagine dal contenuto inquietante che mettono in luce con assoluta chiarezza il lato oscuro dell'industria alimentare italiana.
Un argomento che deve interessare tutti noi in quanto consumatori ma anche perché riguarda un settore strategico, da sempre considerato un vanto per il nostro Paese.
Si tratta del cibo "made in Italy" sul quale poggia circa il 10% del PIL nazionale con un giro d'affari di ben 154 miliardi di euro l'anno.
Una risorsa strategica da custodire e potenziare con la massima priorità soprattutto in un momento certamente non facile per l'economia italiana.
Come i lettori ricorderanno, "sulla mensola del fraud auditor" abbiamo già collocato un'altra opera di Mara Monti,
L'Italia dei Crack, un resoconto puntuale dei grandi scandali economico-finanziari accaduti in Italia nell'ultimo decennio.
Ora parliamo di un nuovo business criminale e di una nuova inchiesta giornalistica.
Questa volta però ho deciso di coinvolgere nella mia recensione la stessa coautrice, ponendole alcune domande.
Lei è stata autrice del fortunato libro “L’Italia dei Crack” nel quale ha descritto in modo particolareggiato i fatti e i misfatti legati ai dissesti di alcune tra le più grandi aziende italiane. Ora un saggio riguardante il settore agro-alimentare. Come e perché le è venuta l’idea di condurre un’inchiesta su questo argomento? Ci sono analogie tra le due opere giornalistiche?
In entrambi i casi si tratta di denunce: nel primo ho cercato di descrivere come i risparmi venivano amministrati dal settore finanziario alla luce di alcuni scandali, primo fra tutti quello della Parmalat. Ed è appunto indagando su questo Gruppo e su un settore, quello agroalimentare, che ho raccolto indizi e informazioni diventati utili per questo ultimo libro.
A cominciare dalle infiltrazioni malavitose: tra il 1996 e il 2003, cioè fino alla vigilia del crack, il clan dei casalesi erano riusciti ad imporre in tutta la Campania il latte Parmalat. Eurolat la società del latte della Cirio concedeva ai casalesi che fungevano da grossisti super sconti che finivano direttamente nelle tasche del clan. In cambio ottenevano vendite garantite a un prezzo superiore rispetto a quello praticato nel resto d’Italia. L’infiltrazione della criminalità nel settore alimentare è ammessa anche dalla Direzione Antimafia che nella sua relazione annuale del dicembre 2012 scriveva: “E’ un livello molto più sofisticato che riguarda più in generale il terziario, poiché arriva a toccare la grande distribuzione al dettaglio con l’imposizione da parte delle organizzazioni mafiose dei propri prodotti nella intera catena della distribuzione”. Lo hanno segnalato anche i servizi segreti nella loro relazione annuale al Parlamento dove si legge: “è forte l’interesse straniero per il settore agroalimentare” precisando che “l’attuale scenario fluido e globalizzato è sempre più esposto agli appetiti dei circuiti anche illegali”. Quanto basta per dire che quando si parla tanto di cibo bisogna essere vigili perché c’è una parte del business che è truccato.
Mi chiede se ci siano analogie? Senza ombra di dubbio quella dei controlli laschi. Succede nella finanza come testimoniano gli scandali degli anni passati e quelli attuali, ma succede anche nel settore alimentare: controllori spesso corrotti che chiudono un occhio di fronte alle analisi dei prodotti che riportano parametri fuori dalle norme di legge.
Qui non si parla di soldi, ma di salute e forse è ancora più grave.
Nel libro si parla diffusamente dell’ “agromafia” come fenomeno in crescita con un fatturato annuo stimato in 12,5 miliardi di euro. A questo ammontare si devono aggiungere altri 60 miliardi di euro annui derivanti dalla falsificazione del marchio italiano dovuto ai prodotti “Italian sounding” che richiamano genericamente l’Italia ma che italiani proprio non sono. Un danno immenso per l’economia nazionale. Per la documentazione che ha potuto analizzare, ritiene che gli sforzi profusi dall'Autorità Giudiziaria siano sufficienti al fine di recuperare queste somme guadagnate illecitamente?
Finora è stato recuperato ben poco. Per queste fattispecie le autorità giudiziarie procedono in prevalenza per il reato di falso in commercio oppure al massimo per truffa, reati difficili da dimostrare e con una pena edittale che arriva ad un massimo di due anni e a una sanzione di 4 milioni che con le attenuanti si abbassa ulteriormente. E’ chiaro che se la sanzione è poco incisiva, perde la sua portata di deterrenza. A questo si aggiunga il fatto che difficilmente vengono effettuate indagini di natura finanziaria nei confronti dei soggetti e società. Così facendo il giro dei soldi che deriva da questi traffici illeciti rimane quasi sempre nell'ombra. Questo non vuol dire che le indagini non ci siano. Ogni anno si scoprono casi di frodi di ogni genere: dalla mozzarella di bufala prodotta con latte importato, concentrato di pomodoro spacciato come italiano e ottenuto con la materia prima cinese, prosciutti confezionati con carne danese, olio ricavato da olive spagnole, tunisine e greche. A questi si aggiungono le truffe agli aiuti comunitari e all'agricoltura nei quali si sta inserendo pesantemente la mafia: la crisi economica ha fatto si che i gruppi criminali siano sempre più attivi nei progetti europei. Le mafie che possono contare su ingente liquidità a disposizione, comprano terreni e beni per potere partecipare ai bandi comunitari.
Un’emergenze sollevata anche dal Parlamento europeo che ha costituito una commissione speciale antimafia per la lotta alla corruzione negli appalti, nella pubblica amministrazione e nei fondi europei.
Quando è in gioco l’alimentazione sono in gioco gli interessi di tutti. Come vede il contributo nel contrasto di questi fenomeni illeciti delle associazioni dei consumatori o dei produttori? Secondo lei sarebbe possibile la promozione di azioni legali collettive sulla falsa riga delle famose “class action” americane?
Le associazioni dei consumatori hanno un ruolo determinante, si tratta di vedere se hanno sufficienti informazioni per avviare un’azione legale. Lei citava lo strumento della class action, strumento introdotto in Italia per la prima volta dopo gli scandali finanziari. La genesi di questa legge è stata difficile e lunga, ci sono voluti cinque anni per trovare una formulazione legislativa condivisa. Alla fine quello che ne è uscito è stato uno strumento quasi inutile e di difficile utilizzo come più volte è stato denunciato. Negli Stati Uniti dove c’è una lunga tradizione di azioni legali collettive, recentemente si è appreso che una nota casa produttrice di birra è stata oggetto di class action perché scoperta a diluire la birra con l’acqua, non riportando sull'etichetta la reale composizione del prodotto: “Il consumatore deve ottenere informazioni affidabili sui prodotti che acquista”, recita l’atto con cui i legali dei consumatori hanno chiamato in causa il produttore di birra, avviando appunto una class action.
Il made in Italy sarebbe più tutelato se anche in Italia si diffondesse l’utilizzo di azioni legali collettive.
Le somme realizzate grazie alla contraffazione del prodotto alimentare “made in Italy” sono oggetto di riciclaggio come avviene per qualsiasi altro provento da fatto illecito. In seguito a quanto ha potuto verificare, quali sono i canali utilizzati per ripulire questo denaro illecito?
Come ho già detto è difficile trovare in questo settore delle inchieste che vadano a scandagliare i profili finanziari di questi reati. Per quello che si è potuto constatare specialmente nelle inchieste fatte all'estero, il riciclaggio avviene come per gli altri settori, attraverso società off shore con sede in paradisi fiscali dove vengono sbiancati i proventi del reato. Cipro ad esempio era un terminale nel traffico che ha portato a scoprire lo scandalo della carne di cavallo.
Mi aspetterei che i proventi di attività illecite, ad esempio nel traffico di stupefacenti, vengano reinvestiti nel settore alimentare dal momento che alcuni prodotti seguendo gli stessi precorsi della droga.
In un mercato ormai globale, con regole e controlli non omogenei, interessi divergenti e un grado di competizione tra Paesi forse eccessivo, quale potrebbe essere una possibile via di mitigazione dei fenomeni illeciti legati al settore agro-alimentare? Potrebbe essere utile potenziare le strutture di controllo e vigilanza europee già esistenti? Oppure, visti i risultati deludenti di una certa globalizzazione senza regole, si dovrebbe tornare ad una tutela basata su forme di protezionismo dei prodotti nazionali pensate e organizzate dai singoli Paesi?
In primo luogo bisogna rendere più pesati le sanzioni per questa fattispecie di reati, le ultime proposte fatte dall'ex Ministro Severino sono rimaste sulla carta.
Del problema se ne sta discutendo anche a livello comunitario ma l’impressione è che si resti troppo in superficie.
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Mara Monti e
Luca Ponzi invitano tutti alla presentazione del libro "Cibo criminale" che si terrà il prossimo
mercoledì 26 giugno alle ore 18.00 presso la Libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires 33 a Milano (per gli utenti fecebook cliccare
qui).
L'occasione sarà propizia per conoscere personalmente gli autori e per porre loro eventuali domande.
Per chi fosse interessato all'acquisto
on-line (cliccare):
(247 p., Newton Compton - collana Controcorrente. Prezzo di copertina: € 9,90 - eBook: € 4,99).
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Mara Monti è giornalista a Il Sole 24 Ore dove lavora alla redazione finanza.
E' specializzata in giudiziaria; ha scritto il libro “L’Italia dei crack” ed è coautrice di “Gialli finanziari, otto casi italiani e internazionali” (Cairo Editore).
Prima de Il Sole 24 Ore, Mara Monti ha lavorato a Radio 24 e come
chief editor all'agenzia internazionale Dow Jones Telerate del gruppo editoriale che pubblica il Wall Street Journal.
Laureata in Economia all'Università di Bologna con una tesi sul commercio internazionale, Mara Monti ha un master in Relazioni Internazionali alla London School of Economics di Londra.
È membro di IRPI (Investigative Reporting Project Italy), l’associazione italiana di giornalismo investigativo.
Luca Ponzi giornalista prima alla "Gazzetta di Parma" ora alla sede RAI dell’Emilia Romagna, ha raccontato alcuni degli episodi di cronaca più importanti degli ultimi anni, dal crack Parmalat al rapimento del piccolo Tommaso Onofri.
Nel 2012 ha pubblicato Mostri normali. Storie di morte e d’altri misteri, una raccolta di cold case avvenuti in Emilia Romagna dagli anni ’70 ad oggi.